Islanda chiama Italia. Introduzione di Andrea Degl’Innocenti

A tutti sarà capitato, per una sventura o per un’altra, di giocare al gioco delle sedie. A qualcuno a scuola, ad altri in campeggio, a chi infine in qualche villaggio vacanze – un po’ squallido, ammettiamolo. Ma non è questo il punto. È quel gioco in cui c’è sempre una sedia in meno rispetto al numero di giocatori. Finché c’è la musica tutti stanno in piedi e camminano e ballano, parlano fra loro e scherzano, magari si divertono pure; poi la musica finisce ed ognuno si precipita alla ricerca di una sedia. E inevitabilmente qualcuno alla fine resta in piedi.

Ecco, l’economia contemporanea dalle cifre gonfiate a dismisura dalla speculazione finanziaria mi sembra simile al gioco delle sedie. In una variante un po’ particolare, in cui i giocatori sono diverse centinaia e le sedie, ahimè, solo poche decine. Ora, finché c’è la musica ci si può illudere facilmente che ci siano sedie a sufficienza per tutti. Si ride, si scherza, magari ci si diverte, si pensa ad altro. Ma prima o poi la musica finisce. E stavolta a rimanere in piedi sono in parecchi. Certo, questo non è un problema finché c’è la musica. Fino a poco tempo fa in pochi si erano chiesti cosa sarebbe accaduto dopo, e a quei pochi avevamo accordato l’ascolto che merita un compagno di classe fastidioso e un po’ sfigato che nessuno ha invitato alla festa, venuto solo per guastarci il divertimento. Il nostro problema, adesso, è che la musica sta finendo, proprio qui, ora. Lo sappiamo, ce ne accorgiamo ogni giorno di più, sentiamo il ritmo affievolirsi ed il ritornello avviarsi a conclusione. Qualcuno si guarda attorno spaventato, altri alzano il volume, cercando invano di nascondere il gracchiare del disco giunto ormai alla fine. Nessuno, a ben vedere, sa cosa fare. Al tempo stesso, sappiamo che più aspettiamo fingendo che tutto vada bene, più ci avviciniamo un poco di più all’orlo del precipizio di una crisi economica, ambientale, sociale dagll’impatto devastante.

Eccoci qui, dunque, un po’ perplessi, imbambolati, del tutto terrorizzati. Alla disperata ricerca di risposte. Mettiamo subito le cose in chiaro: non ne ho. Sono né più né meno confuso di chiunque altro, del tutto terrorizzato. In compenso, ho una gran voglia di cercarne. Del resto di risposte già pronte non ve ne sono; chi ne propone o è un affarista, o è un truffatore, o, nella migliore delle ipotesi, è un illuso. Così, con quello «spirito d’incertezza» che Edgar Morin considerava una premessa imprescindibile della conoscenza, ho deciso di mettermi in viaggio.

I primi echi dall’Islanda mi erano giunti attorno al maggio 2011. Una e-mail mi informava riguardo ad una «rivoluzione silenziosa» che aveva coinvolto il popolo islandese. Mi meravigliai al principio di non averne sentito parlare prima: l’unico fatto per cui l’Islanda era giunta agli onori della cronaca, a mia memoria, era l’eruzione di quel suo vulcano dal nome impronunciabile che coi suoi sbuffi bianchi aveva paralizzato i cieli di mezzo mondo. Ed ecco che invece mi si raccontava una storia diversa, di un popolo di ex-pescatori, travolto dal progresso e poi dalla sua crisi, che si era sollevato in massa contro la dittatura finanziaria internazionale che cercava di schiacciarlo, aveva messo un freno alle politiche neoliberiste degli ultimi anni del secolo ed aveva dato il via ad un processo di riappropriazione dei diritti culminato con la stesura di una nuova costituzione condivisa. Mi informai, lessi quel poco che si trovava online, tradussi qualche articolo dall’inglese. A luglio scrissi un pezzo sull’argomento sul quotidiano online Il Cambiamento, con cui collaboro da anni, che riscosse un certo successo. Mi resi immediatamente conto che nulla, o poco più, si sapeva su quanto accadeva lassù. E che, al tempo stesso, c’era una gran fame di notizie. Mentre l’informazione di massa cercava di convincere i propri lettori e spettatori dell’estremo paradosso liberista – quel mantra che vuole che per uscire da una crisi di sistema generata dall’eccessivo ricorso al mercato ci sia bisogno di ancora più mercato, dunque più privatizzazioni, liberalizzazioni, austerità e perdita di diritti – la vicenda islandese raccontava una storia diversa. Centinaia di persone, commentando l’articolo, esprimevano un bisogno impellente di conoscenza; volevano sapere come un paese diverso aveva trovato una via d’uscita ad una situazione simile alla nostra, se non peggiore.

Così, a qualche mese di distanza, ho deciso di andare a respirare un po’ d’aria fredda islandese. Mi sono accorto che le informazioni che giungevano fin qua rischiavano di essere distorte, comunque filtrate, seppur in maniera inconsapevole. Gli islandesi di cui leggevo e sentivo parlare risultavano spesso dipinti coi tratti dell’eroismo (di cui è facile cadere vittima in questi casi). D’altronde è una tendenza inconsapevole dell’animo umano quella di immaginare un luogo in cui tutto va bene ed ogni cosa sta al suo posto. Ci sono posti, poi, che più di altri si prestano a questo processo di idealizzazione, perché diversi da ogni luogo a noi noto, distanti nel tempo o nello spazio. L’Islanda, terra lontana e irraggiungibile, è la proiezione ideale di ogni speranza. Negli anni  precedenti alla seconda guerra mondiale i nazisti vi collocarono le proprie radici, in quell’ideale di razza pura conservata dalle contaminazioni per via dell’isolamento; negli anni Settanta la follia neoliberista scovò nella società medioevale dell’isola la conferma della fattibilità della propria idea distopica di un mondo senza stato e senza istituzioni, in cui ogni pezzo di terra e d’acqua è posseduto privatamente, ogni questione regolata da impulsi economici. Per questo dovevo andare fin là, vedere gli islandesi, parlarci, toccare la terra e lavarmi la faccia con l’acqua gelida delle cascate, per essere finalmente del tutto consapevole di quello che avrei scritto. Per cercare di evitare con ogni forza di fare lo stesso errore. Non esiste un luogo fisico che incarna il nostro ideale. E per quanto l’ammissione sia dolorosa, è necessario farci i conto fin da subito. In questo lavoro mi sforzerò di non proiettare sulla vicenda islandese i desideri di una società più giusta, di una rivalsa popolare sulle istituzioni finanziarie mondiali; cercherò di essere il più oggettivo possibile, pur senza la pretesa di essere imparziale. Altrimenti ne risulterebbe una visione distorta e alterata, e più che raccontarvi ciò che è accaduto lassù, per trarne in seguito le necessarie conclusioni, rischierei di raccontare ciò che vorrei – vorremmo – fosse accaduto.

Così mi sono spinto fra i ghiacciai e i vulcani, gli elfi, la gente schietta e testarda, temprata da una natura rigogliosa, preponderante. Per conoscere le persone che hanno dato il via  a questo processo democratico, a vedere con i  miei occhi cosa è cambiato e come. Perché, se è vero che l’Islanda è terra utopica e irraggiungibile, d’altro canto è anche terra dimenticata, periferica, difficile da collocare e da ricordare. «Nel secolo XII – scriveva Borges -, gli islandesi scoprono il romanzo, l’arte di Cervantes e di Flaubert, e questa scoperta è segreta e sterile per il resto del mondo, così come la loro scoperta dell’America». Non lasceremo che il silenzio e l’oblio calino anche su questa vicenda, che tanto ha da insegnare anche a noi cittadini italiani ed europei.

Poi di ritorno, con la storia in valigia. A cercare di capire cosa prendere e cosa gettare di questa vicenda dalle tinte fiabesche che assume di colpo i tratti (più duri ma ancor più interessanti) della realtà. Ciò che mi propongo, e vi propongo, è di raccogliere dall’esperienza altrui qualche spunto per riflettere sulla nostra situazione. Come dicevo, non ho risposte già pronte per nessuno. Spero soltanto che questo libro possa fornire un contributo, seppur minimo, a quel dibattito che da noi stenta ad avviarsi, ma di cui c’è assoluto bisogno. Un dibattito che parta dal definire cosa intendiamo per democrazia, per sovranità popolare, per partecipazione e comprenda una riflessione sulla democrazia, sul ruolo che vogliamo assegnare ai mercati all’interno della società (ciò che vogliamo e non vogliamo che regolino), sugli indici e gli standard da utilizzare per valutare il nostro benessere e quello della nostra nazione, sui beni comuni, infine sui metodi attraverso i quali raggiungere il cambiamento. Partiamo.

Andrea Degl’Innocenti

 

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